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Shalom Harlow
Quando la tecnologia robotica ha contribuito alla creazione di nuove forme e concetti di estetica nel mondo della moda

La rivoluzione di Alexander McQueen: robot e vernici nel mondo della moda.

 

Vernici e schizzi di colore giallo e nero colpiscono il bianco candido dell’abito di mussola portato sulla passerella da una modella, la quale, dopo essere stata bersaglio dei getti spruzzati da due robot non solo sul vestito da lei indossato, ma anche sul corpo, esce di scena esausta, quasi plasmata dalla forza al tempo stesso creatrice e distruttiva dei bracci meccanici.

 

È questo il memorabile finale della sfilata intitolata No.13, frutto del Genio dello stilista Alexander McQueen (1969 – 2010), sfilata che rappresenta uno degli esempi più celebri di connubio tra moda e meccanica e che ha avuto come risultato una vera e propria performance artistica.

 

Ispirato da un’installazione dell’artista tedesca Rebecca Horn consistente in due fucili che sparavano vernice rosso sangue l’uno contro l’altro, Mcqueen, avvalendosi dell’aiuto della casa automobilistica Fiat, ha portato in passerella due robot che hanno contribuito alla creazione live di un vestito; uno show epico, che ha regalato al pubblico un evento totalizzante, un perfetto esempio di Sublime, cioè di un’esperienza che racchiude in sé due sentimenti principali – paura e fascino – con la fondamentale differenza che, rispetto alla sua classica definizione, la causa scatenante di questo tipo di Sublime non è la natura, bensì una macchina.

 

La paura è quella che si legge sul volto della modella, la ballerina Shalom Harlow, che, dopo aver raggiunto una piattaforma circolare posta al centro della scena e dopo aver iniziato a roteare lentamente con essa, cade “vittima” di un attacco improvviso di vernice a spruzzo da parte dei due robot. Un falso senso di tranquillità iniziale, suggerito dal candore quasi virginale del vestito e dai primi movimenti dei robot simili a una danza, viene smentito quando questa danza si trasforma, come da indicazioni precise di McQueen, in movimenti simili alle contorsioni e ai balzi di serpenti.

 

La Harlow, salda al centro della piattaforma, subisce l’attacco dei robot, agitando le sue belle braccia sopra la testa, come a proteggersi dalla macchina programmata ad investirla di colori.
E poi ci sono i sentimenti costruttivi che la paura suscita, cioè il fascino e il senso del bello. Affascina la recitazione di Shalom Harlow, la perfetta programmazione delle macchine (avvenuta in quasi due settimane), il set, l’ambientazione, la scelta della musica di accompagnamento, il vestito sartoriale e, soprattutto, affascina il risultato finale, che lascia quasi un senso di sbigottimento.
Si dice che No.13 sia stata l’unica sfilata che abbia fatto piangere Alexander Mcqueen stesso.

 

Sicuramente è stata la più ambiziosa fra tutte, e, in questo caso, l’ambizione ha premiato: il risultato più estremo di questa equazione di sentimenti e performance è l’arte. La modella, e con lei gli spettatori, si lasciano sopraffare dai movimenti delle macchine, che danno vita alla creazione di un design futuristico e concettuale, un design frutto non solo di semplici spruzzi di colore, ma di un’esperienza totalizzante, un’art in the making, resa possibile dal binomio uomo-macchina.

 

Questa stessa ambizione è il motore immobile del progetto Proximars: l’arte nasce e si trasforma attraverso un percorso che parte dalla visione degli artisti, diventa performance grazie all’integrazione della conoscenza tecnologica e trova il suo compimento nelle impressioni dello spettatore, che viene accompagnato in un viaggio verso orizzonti artistici, e conseguentemente emozionali, inesplorati.